Antonio Martino: couture e prêt-à-porter insieme
“Una delle poche cose che mi piace di me è che le mie creazioni sono senza tempo.
E magari riesco ad apprezzarle dopo qualche anno che le ho realizzate.”
Antonio Martino – Antonio Martino Couture
Nato a Salerno, romano d’adozione, dopo gli studi di moda e le collaborazioni con nomi del calibro di Gattinoni e Roccobarocco, dal 2008 Antonio Martino ha avviato il suo atelier nella Capitale, distinguendosi per la produzione camaleontica, i capi “trasformabili”, adatti a tutte le età – di grande successo la serie di camicette che si possono allacciare in 8 modi diversi. Ospitato in molte trasmissioni televisive come opinionista di moda, Antonio ha vestito numerose “vip”; tra le altre, la cantante Simona Molinari in occasione della sua partecipazione al Festival di Sanremo nel 2013 – per la quale ha curato l’intero look anche quando è stata ospite del Festival l’anno seguente, facendole ottenere il riconoscimento di “regina di stile ed eleganza”.
Hai affermato spesso che il tuo brand è rivolto alla donna che vuole essere unica ogni giorno, senza attendere le grandi occasioni: come avviene questa ricercatezza, in quali dettagli si traduce nei tuoi abiti dell’ultima collezione? Le mie collezioni al momento si dividono tra Atelier e Urban Park e la seconda, in particolare, nasce per portare alcuni dettagli dell’haute couture (dalla quale provengo) nella moda prêt-à-porter e quindi nella quotidianità. In Urban Park ho giocato molto attraverso l’accostamento di tessuti come il neoprene con la pelle o l’ecopelliccia, un panno di lana quadrettato insieme ad un trapuntino imbottito, piuttosto che ricorrendo all’uso di alcuni dettagli ai quali tengo molto, come alcune cuciture delle maniche – le cui origini si potrebbero far risalire agli abiti dell’Ottocento – su indumenti con forme e volumi moderni come un bomber. Ho provato ad osare in questo senso anche in uno dei miei abiti da sera, realizzato in neoprene con intarsi di chiffon.
Urban Park quindi sembra una collezione piuttosto invernale. Non è prettamente invernale, il fatto è che io ho una predilizione per i capospalla ma sto ancora lavorando a completare questa collezione con alcuni elementi che mancano.
All’attività creativa Antonio affianca da anni quella della di docente, che ultimamente si concentra presso l’Accademia del Lusso di Roma.
Qual è l’insegnamento più importante che cerchi di dare a chi si avvicina per la prima volta a questo tipo di studi? La cosa che cerco di insegnare e sulla quale torno continuamente è la professionalità. L’estro può esserci o meno ed essere differente in ciascuno: posso guidare ad esprimerlo ma non posso condizionarlo più di tanto. Quando assegno una ricerca su un tema in particolare, quello che chiedo è di non fermarsi all’apparenza, di non avere pigrizia mentale… sono molto severo, non mi accontento! E poi esorto a non perdere il senso della realtà: un abito deve fare felice la gente, quindi non è la forma impossibile a renderlo speciale.
C’è un background che accomuna chi vuole entrare a lavorare nel mondo della moda? No, secondo me no. La moda è il sogno di tutti; quando ero piccolo io magari volevamo farne parte perché in tv guardavamo le sfilate di Beautiful! Oggi forse si coltiva di più la ricerca della bellezza, alcune ragazze hanno un ego piuttosto sviluppato e col pretesto della moda si fotografano per farsi guardare su Instagram, sognando di diventare delle star.
Del periodo in cui eri tu a studiare, cosa ti è rimasto impresso? Io ho fatto da subito delle scelte precise. Ho frequentato un professionale della moda in un momento in cui ancora – prima delle riforme scolastiche che ne hanno trasformato il percorso in una direzione più tecnica – questo tipo di scuola funzionava.
La Ida Ferri Fashion School – della quale sono diventato, poi, docente e per tre anni direttore artistico – è stata la scelta immediatamente successiva e ovviamente ne conservo un bel ricordo: all’epoca sperimentavo molto ed era prorpio il momento giusto per farlo, ad esempio creando alcuni abiti scultura. Con Emilia Scaccia (che ho conosciuto proprio lì) siamo rimasti male, però, perché non siamo stati invitati ai loro recenti festeggiamenti per i 90 anni di attività, sebbene si possa dire che insieme abbiamo fatto la differenza in quella scuola. Non siamo stati nemmeno menzionati nelle loro comunicazioni, sembra ci abbiano cancellati.
Insieme alla stilista Emilia Scaccia avete ideato Spazio 2.0, uno spazio polifunzionale che si presenta sia come laboratorio che come luogo per esporre le creazioni di entrambi. Come è nata l’idea e come si sta evolvendo questo progetto? Quando con Emilia abbiamo visto per la prima volta questo spazio a dire il vero era occupato e noi ne avevamo già un altro, ma ci eravamo fissati perché ne intuivamo le potenzialità, quindi prenderlo è stata una piccola avventura. Il laboratorio lo gestisce Emilia ma funziona anche da service per altri clienti ai quali forniamo consulenza stilistica e manodopera. Lo abbiamo chiamato 2.0 perché pensiamo di aprirlo a giovani creativi e renderlo un posto “interattivo”, ma al momento siamo molto concentrati sul lavoro dell’aterlier e non abbiamo avuto ancora molte occasioni per spingerlo in quel senso.
Pubblicato su West 46th Mag